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scrive Till…
Quando vi ero arrivato un casino di anni fa, c'erano più grettezza, più
povertà, ma anche più speranze. Per darsi delle arie, la gente di mezza età
amava usare i ridicoli francesismi: comme il faut, pied-à-terre, soignée,
savoir faire. Facevano tenerezza. Performante e happy hour non esistevano
ancora.
Vedevo ancora tanta timidezza e pudore.
Il prepotente era considerato un criminale.
Se uno guidava una cabriolet, sapeva di essere un privilegiato (o un ladro).
C'era il mito della signorilità, non delle apparenze trendy.
I milanesi erano fieri del panettone, dello Stadio S. Siro, della Stazione
Centrale e della loro Fiera.
Agli anziani e alle donne incinte si dava la precedenza.
Oggi, solo perché abbiamo il brunch e alcune modellastre scandinave di
passaggio, crediamo che Milano sia diventata una città internazionale. Che
lo sia davvero, ce lo dicono solo le riviste straniere dedicate al design e
i turisti asiatici in pellegrinaggio nel triangolo maledetto Manzoni, Spiga,
Montenapoleone.
Tutti gli altri viandanti fanno un salto alla Scala e al Cenacolo, per
proseguire subito per Cremona, Ferrara, Trento.
Gli artigiani, i negozi locali, i vigili dalle maniere decenti sono
scomparsi. Ma, ed è questo la cosa più triste, sono scomparsi addirittura i
milanesi. Tra città e abitanti non c'è più nessuna identificazione.
Abbiamo un terzo di underdog disperati, un terzo di pensionati nostalgici e
un altro terzo di ridicoli apologeti opportunisti che sognano Barcellona,
Amsterdam e Berlino.
Con tutti i loro casini e la criminalità, Napoli e Palermo hanno un
carattere, una memoria, un dialetto. Per non parlare di Roma.
Se devo scegliere tra una colonizzazione del Vaticano e un'altra di impronta
yankee, io, che sono un mangiapreti a tempo pieno, scelgo la disperazione di
Pasolini.
Till